Un caso di riuso oggettuale postfunzionalmente inventivo (dedicato all’amico Giuseppe Manica che me lo ha fatto conoscere)
In tutta libertà immaginativa, implicitamente parafrasando nell’occasione la famosa, fondamentale, affermazione di Antoine Laurent de Lavoisier, tramite un suo sorprendente scatenamento immaginativo tutto in termini di animismo iconico, Mario Sposato potrebbe suggerirci che il principio del proprio scanzonato dialogo di riuso postfunzionale (ma anche, in qualche caso, in realtà neofunzionale) degli oggetti è che nulla si distrugge e tutto si ricrea. Che appare subito un istintivo, certamente gioioso, ribaltamento del principio motore dell’ormai consunto consumismo spinto, dal quale siamo quotidianamente ovunque insidiati, consistente infatti esattamente nell’implicita apodittica affermazione (quasi d’adombramento funestamente escatologico), proprio che tutto si crea per estinguersi consumandosi inesorabilmente quanto molto tempestivamente. Se la pulsione consumistica si risolve infatti nell’artificiosità spinta del ciclo impostoci (produzione-accelerato consumo-nuova incalzante produzione-nuova accelerata programmata consunzione oggettuale), di segno del tutto opposto appare il processo implicito in questa singolare, e per l’interessato fondamentale e addirittura identitaria, attività di riuso inventivo dell’oggetto (di preferenza ancora splendidamente inobsoleto, piuttosto che ad una sua fine d’uso) che muove la restituzione di senso operata da Sposato, esattamente direi come una possibilità di ultrasenso postfunzionale dell’oggetto. Nella quale infatti istintivamente egli arriva, l’unilateralità coattiva del vincolo consumistico, a esaurire, a concludere, a terminare, a gettare, quale destino dell’oggetto d’uso, a capovolgerla nell’improvvisa apertura di una del tutto nuova, e quasi sempre assai sorprendente (giacché il gioco del riuso immaginativo vi è del tutto scoperto, nei suoi meccanismi ricompositivi) e imprevista, eppur immaginativamente plausibile, metafunzionalità quale destino ulteriore dell’oggetto, nelle sconfinate possibilità d’un suo riuso combinatorio. Così detto si potrebbe credere che, con il suo allegro fare irriducibilmente inventivo, ironico, battutistico, persino un po’ blasfemo, Sposato irrompa consapevolmente nella lunga storia di uso e riuso dell’oggetto. Quella che, fra l’altro, giusto qualche anno fa, è stata esplorata nei suoi diversi momenti e aspetti fenomenologici in un convegno svoltosi fra Arcidosso alle falde del Monte Amiata (dove a Seggiano è una delle basi dell’attività di Daniel Spoerri, forse il massimo frequentatore e utilizzatore finale contemporaneo di oggetti: dall’ambito sociologico degli anni del anche suo “Nouveau Réalisme”, alla consistenza di profondo spessore antropologico del suo ricercare negli ultimi decenni) e il Museo Pecci di Prato (curato con Anna Mazzanti, gli stimolanti atti sono ora in un volume edito da Liguori, Napoli: L’oggetto nell’arte contemporanea. Uso e riuso). In realtà la forza e la consistenza ma al tempo stesso la leggerezza e spensieratezza della capacità di sorpresa con la quale gli oggetti reinventati, se vogliamo i “rioggetti”, di Sposato si affermano nasce da una base d’inventività felicemente del tutto istintiva, a sua modo potremmo direi intelligentemente “incolta”, che fa subito come tale premio sul campo, rispetto a eventualità di vacue culturalistiche e passive tentazioni “neo”, rispetto appunto alla lunga storia che l’oggetto ormai ben ha nella fenomenologia dell’arte del nostro tempo, attraverso infatti oltre un secolo. Con tutta evidenza l’immaginazione di Sposato non muove infatti da esperienze “colte”, storiche, di eversiva rottura di affermate pratiche artistiche, come in casi d’assunzione diretta dell’oggetto “ready made” o dell’ “objet trouvé”, in particolare fra esperienze dadaiste ed esperienze surrealiste. Nasce invece sul terreno dell’immediatezza immaginativa combinatoria che, in un ambito di istintiva maieutica espressiva popolare (individuale come matrice, collettiva come implicita destinazione), di una consistenza antropologica primaria, si fonda sulla capacità di provocazione comunicativa appunto dell’atto di reinvenzione combinatoria. Ribaltando dunque le originarie funzioni pragmatiche dell’oggetto d’uso appunto in metafunzioni immaginative di un nuovo destino paradossalmente sorprendente, provocatoriamente ludico, quando tuttavia non invece allarmante, per sinistri possibili impliciti richiami. E tutto ciò per un reintrodursi infine dell’oggetto in una circuitazione d’uso, non più tuttavia in termini di funzionalità primaria originaria ma appunto di una metafunzionalità di motivazione fortemente immaginativa (che vuol dire di capacità evocativa ulteriore). Oggetto che tuttavia può anche riproporsi a suo modo ulteriormente funzionale ma allora con un plusvalore di provocazione immaginativa spesso del tutto sorprendente. E appunto Sposato può istintivamente servirsi di oggetti i più disparati, da quelli (inobsoleti dunque) più prossimi al suo lavoro di gestore di spazi e occasioni di intrattenimento collettivo, a oggetti offertigli invece dalla natura, e da quella marina in particolare, così prossima agli spazi del suo impegno quotidiano. Nella gamma fenomenologica degli usi e riusi oggettuali messi in atto nell’ambito delle esperienze artistiche della nostra contemporaneità ormai “lunga” (da Duchamp a Schwitters, da Cornell a Burri, da Rauschenberg a Kienholz), l’oggetto “ready made” si è proposto in una testualità come tale ironicamente di radicale potenzialità eversiva, negandone ogni spessore di memoria (Duchamp). Oppure, al contrario, recuperato dalla sua obsolescenza d’uso qotidiano, si è caricato d’uno spessore di tracce d’uso, di consunzione nell’implicazione di un nesso forte di vissuto, dunque di memoria umana, individuale e persino sociale (Schwitters); due casi d’ambito dadaista, negli anni Dieci e Venti. Oppure, altrimenti, ricercato in una sua significatività metamorfica, in chiave del tutto animistica, come nell’ “objet trouvé” surrealista, negli anni Venti e Trenta. Oppure, ancora, prepotentemente assunto per prova di pertinenza alla sfera della quotidianità sociale, come diversamente accaduto in ambito “neodadaista” e dintorni (il Rauschenberg delle “combine painting”, alla fine degli anni Cinquanta), o d’un assemblagismo oggettuale socialmente contestatario (Kienholz, nei Sessanta e Settanta). Ma la reinventiva oggettuale messa in atto da Sposato ha anche una sua consistente capacità di ricaduta ambientale, nella medesima prospettiva di una nuova funzionalità di provocazione-evocazione immaginativa postfunzionale. Il “Lido degli scogli” è infatti qualcosa come una sua “Merzbau”, uno spazio di continua provocazione immaginativa, fra natura e artificio, in una coinvolgente imprevedibilità illimitata, riproponendovisi in dimensione appunto ambientale il suo teatro d’immaginazione oggettuale. Ciò che sorprende è la intensità della tensione iconica inventiva oltre la stessa ridondanza del Kitsch che lo insidia ma non travolge, né condiziona: capovolto in un esercizio ludico conbinatorio di reinvenzione postfunzionale o forse anche neofunzionale dell’oggetto, e della sua capacità, come tale, di animazione ambientale. Questi i termini in cui la disinvoltura immaginativa che muove l’operatività “artistica” di Sposato, nella sua carica inventiva, istintivamente sfida l’impasse di formalismi ai quali il consumismo artistico corrente e ufficializzato (anche di pretesa avanguardia) ci vorrebbe costringere. Nel suo fare da ulteriore “oggettore” (come direbbe forse ancora una volta, anche nel suo caso, il mio amico Alain Jouffroy), certamente è più impressivo che quando opera soltanto quale pittore. Come tale mi sembra arrivi ad acquisire capacità iconiche più convincenti quando riesce a farsi più lievemente segnico, anche in implicazioni pittoriche in proposizioni oggettuali. Che allora l’intervento cromatico-segnico a volte felicemente alona d’una suggestività ironicamente anche a volte un po’ sentimentale (ironizzando infatti implicitamente luoghi comuni d’un consumismo sentimentale corrente). Al fondo del suo reinventare postfunzionalmente l’oggetto recupera insomma la libertà d’una memoria ludica di eco infantile. E così spontaneamente Sposato intercetta il riguardante a lui consegnandosi nella misura di una propria libertà inventiva combinatoria che è soddisfazione inventiva piena e gioco, in fondo nell’implicito riscatto di una misura basica del far da sé (e chi fa per sé…).
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