Genio che dorme dove meno lo avresti cercato. Mettetevi comodi, perché questo è un catalogo da sfogliare con attenzione. Vi racconta il mondo di Mario, l’artista “pop”, il mutante inconfondibile che scolpisce le forme del nostro tempo: una reinvenzione di fenomeni e sentimenti, un ricalco delicato e ossessivo del passato, lo sguardo inquieto che sprigiona contagiose e fortissime verità. Apprendista trasognato di una lingua tutta sua, che pure parla senza filtri agli occhi del mondo.
Cresciuto sul mare, a Crotone. Un bambino creativo il cui mantra, regalato dal padre, è che “non si butta mai niente”, che molte belle cose possiamo farle con le nostre mani, facendo del riciclo il più ingegnoso e nobile degli artigianati. Perché ogni cosa rivive nella misura in cui lo siamo noi a volerlo. La fantasia abita la necessità. E così la memoria. Del padre, Mario resta orfano a sette anni, ma la sua lezione è preziosa: quando, giovane, nell’amministrazione di una discoteca, si ritrova tutto il mobilio bruciato da un incendio, fabbrica con le sue mani soluzioni ancora più riuscite, più originali, più belle, del design andato perduto. Lo stesso succederà più tardi, dopo che una mareggiata (voltafaccia di quel mare che ama tanto) distruggerà il suo albergo.
Difatti Mario Sposato ha tirato su con i fratelli Pino, Enzo e Damiano un albergo bellissimo: oggi è frequentato da turisti, professionisti, vip di passaggio tra le meraviglie della costa. L’ho conosciuto lì Mario. E lì ho visto in questo ragazzone dallo sguardo triste il genio che nasconde. L’ho visto durante le chiacchierate interminabili che facevamo nei dopo cena, seduti a guardare e a respirare il mare. Lui mi “rimproverava” sempre di arrivare in Calabria, a Crotone, solo per raccontare gli orrori di una terra che non era soltanto fatta di quegli orrori. Io gli rispondevo che qualcuno il “lavoro sporco” doveva pur farlo. Credo di non averlo mai convinto del tutto, però. Forse aveva e ha ragione lui. Ed eccomi un giorno a scrivere, appunto, di una Calabria che è decisamente molto, molto altro rispetto alle mie cronache dall’inferno della criminalità, del malaffare, della malapolitica. Di “quel genio del mio amico”, ad esempio, “lui saprebbe come aggiustare” scriveva Mogol e cantava Battisti. Sembra che parli di Mario quella canzone. Lo rivedo, e lo risento, mentre mi racconta di come anche da una vecchia radio si può tirare fuori un oggetto con una nuova anima. Mi spiegava che la sua famiglia ha un grande magazzino, dove è custodito di tutto. “Quelle vecchie cose –mi diceva- è come se mi parlassero, mi chiedono di farle tornare a vivere. E io le accontento, come il vecchio Geppetto fece con il tocco di legno che trasformò in burattino e che un giorno diventò un bambino in carne ed ossa”. Lo dicevo, la lezione l’ha imparata dal fratello maggiore, Enzo. Una lezione, ma sarebbe meglio dire una passione, che Enzo aveva a sua volta imparato dal papà: le cose non si buttano mai via. Mi parlava di questo Mario e dei suoi sogni, dei suoi progetti, dei suoi “travagli”. Lo rivedo seduto su una delle sue sedie fatte di chissà cosa, venute da chissà dove. Davanti al mare del suo albergo. Un’attività che dà da vivere, un piccolo perimetro di certezze, nel quale però riposa sempre il sogno. Quello di Pino, scomparso troppo presto. Un uomo gentile che amava la poesia e componeva versi. Un uomo non comune che con “poesia” ha saputo affrontare anche il male terribile che lo ha pervaso. Ha lasciato il suo amore per la vita, per la sua famiglia, gli amici che gli volevano bene. E ha lasciato versi indimenticabili. Per Mario sono rimasti un’ispirazione costante. Quel comune gene artistico che, a forza di manipolarlo, trova sempre una sagoma, un nome, un messaggio. E poi, quella passione, appunto, per le cose dimenticate che riprendono vita. Quel rapporto stretto con la filosofia del “conservare” tramandato dal padre. Ecco, allora, frigoriferi smembrati, orologi che nessuno usa più, eliche, caffettiere, ombrelli. Quello che si abbandona, l’oggetto svuotato che non serve più, quello che sembrava non avere né voce né storia, tra le mani di Mario muta come materia vivente. Si trasforma da sostanza accessoria e informe a tratto umanissimo di se stesso. Di noi tutti. Simbolo di cose e persone la cui meraviglia si nasconde muta e invisibile. Meraviglia che sceglie le mani giuste, mani che più le assomigliano. E spaventa, come in un travaglio mistico: ciò Mario dice di provare quando plasma le sue creature. “Riccardo – mi dice ogni tanto – ti confesso di essere preoccupato, provo quasi paura per quello che faccio, per le cose che provo, per quelle che creo”. E mi racconta delle sue notti ad occhi aperti, immaginando un mondo rimodellato a modo suo.
Fantasista del riciclo, un re, su un «trono di latta». Una delle sue opere più emblematiche – il «trono di latta» – che non si addice al ricco né al povero: casomai, a un uomo di un altro pianeta. Un inguaribile sognatore. Un eterno bambino (che pure, è un bravo imprenditore, un marito, il padre di tre figli), l’inguaribile visionario che muta in ombre umane le conchiglie e i ciocchi di legno ceduti alla spiaggia. Un mondo ammaliato, che inverte i processi della natura: che trasforma in fiore un calice di vetro, là dove fiori e frutti, per mano dell’uomo, divengono orpelli senza vita. Un mondo nel quale l’oblò di una nave ha una funzione tutta nuova sulla terraferma: è un tavolino, dà il suo contributo e il suo calore e, al contempo, è capolavoro estetico. Un mondo, quello di Mario, che in un libro avrebbe completato le visioni di Carroll, e che al cinema avrebbe colorato quello di Jean-Pier Jeunet, con la sua Amèlie, devota alla speranza e all’innocenza sempre, trasformatrice tragicomica di oggetti e persone. Storie di donne, appunto, che quasi mai si realizzano con tale sensibilità in un pianeta maschile. Eppure Mario conosce e ama le donne, e riproduce le loro fragilità con pragmatismo spiazzante. Non avrebbe legato i polsi a un manichino (viso innocente e forme prorompenti) dietro una grata, titolando la scultura «Tua», se così non fosse stato. E non avrebbe riposto la bellezza di celluloide di famose top model sotto una tavoletta da wc. La bellezza è altrove.
La bellezza è abisso, fondo e incontaminato, come quello dei Bronzi, o delle meraviglie del passato greco che Crotone custodisce. Tesori insospettabili di una terra gravida di ricordi e di sorprese, mortificata e arsa: ma più viva che mai. Anche qui, in questa terra che un cronista di nera come me racconta solo nei suoi angoli peggiori. Però paure e incubi possono diventare favole, a volte. Si, mettetevi comodi, perché la favola di quel genio del mio amico Mario è appena cominciata.
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